L’amore alla fine del mondo. Su “La produzione di meraviglia” di Gianluigi Ricuperati

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Cominciamo dalla fine. C’è un giovane uomo, Remì – è un giocatore di poker professionista, è muto dalla nascita e comunica col mondo esterno, con «gli altri», grazie a delle immagini plastificate come un mazzo di carte; c’è una ragazza, Ione, che ha «gli occhi di una principessa egizia», parla velocissimo e forse un po’ a vanvera, «come un fatto clamoroso» e vive i libri come «emozioni pure» che la trafiggono, anche se talvolta – per proteggersi, forse – li dimentica, o crede di dimenticarli. Ma questo, per ora, non ha importanza. Ciò che ha importanza, invece, è che Ione e Remì sono insieme, sono appena scesi dal piccolo aereo da turismo di Remì; camminano sulla pista di atterraggio – o quello che rimane della pista di atterraggio – dell’aeroporto di Ginevra. Il mondo davanti a loro è un mondo imploso, sconquassato da una scossa tellurica di potenza terribile. Lontano si alzano «colonne di fumo grigie e bianche»; vicino – sotto ai loro piedi – è un misto di liquami e asfalto; intorno: alberi cose colli divelti e in fiamme, quadrati di verde, pecore stramazzate. La visione-profezia che Ricuperati propone in Litosfera, l’ultima parte della Produzione di meraviglia, è un’immagine potentissima, quasi apocalittica, e di rara intensità. Si potrebbe pensare al Leopardi gnostico, quello del Cantico del gallo silvestre: «così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi». Ma è la suggestione di un momento, dovuta all’improvvisa vertigine metafisica; in realtà, l’immagine che Ricuperati ci consegna è molto diversa da quella leopardiana, non foss’altro che per il punto di vista, che qui è sempre dell’uomo e per l’uomo. Walter Siti ha parlato di «realismo gnostico» come «realtà frugata per rivelarne la mancanza, l’inadeguatezza ad una luce superiore», ed è forse proprio questa la definizione che più ci avvicina alla tensione del testo di Ricuperati; tale tensione, che è la consapevolezza della frattura tra banalità del quotidiano e significato profondo delle nostre azioni, percorre tutto il romanzo, ma esplode con potenza inaudita nella desolata scena finale, dove i lamenti dei sopravvissuti dicono il tragico disaccordo tra evento e senso; Ione e Remì camminano in una landa desolata dolorosamente percependo – uso ancora le parole di Siti – «l’orma vuota di Dio».

Se il terremoto, questa «improvvisa, intollerabile apertura di fauci dell’animale Terra» rende evidente la nostra fragilità e, forse, anche la nostra irrilevanza, esso non è però l’ultima parola. Lo sguardo di Ricuperati è dapprima disincantato, a tratti potrebbe persino apparire duro: «nessuno durante il terremoto stava coincidendo con se stesso, o quasi, perché il terremoto si incunea nel silenzio delle azioni comuni, e le azioni comuni portano le persone a discostarsi da ciò che dovrebbero tenere sempre vicino, presente, qualcosa che assomiglia a sé». Eppure è proprio in questo disincanto, in questa attenzione per le azioni e cose comuni, per le cene preparate e per i colletti di camicie «lisi e ormai poco dignitosi», che l’autore sa ritrovare il filo della nostra umanità per raccontarla con un «di più» di pietas che incanta. Mentre «il sole, imperturbato, comincia la sua discesa a oriente», lacrime e «urla di spavento, urla traumatiche, urla di lamento, urla postraumatiche» sono l’umano controcanto ai tristi «muggiti» della terra, alle sue scosse di assestamento. Il cammino di Remì e Ione in questa parte di mondo ridotta a Natura (a caos, o ad un ordine estraneo e incomprensibile alla vita umana) è anche il culmine di un percorso di conoscenza e avvicinamento: Ione e Remì forse per la prima volta davvero si vedono e si incontrano; per la prima volta i loro corpi si toccano. Non è, questo, uno slittamento verso il romance, ma qualcosa di diverso e decisivo: attraverso il corpo – attraverso la sua fragilità ma anche la sua ricettività – Ricuperati costruisce, e ci fa intuire, un senso possibile; nel resistere insieme dei due protagonisti ci mostra il momento in cui, finalmente, è possibile coincidere con se stessi. E coincidere con sé, il testo sembra suggerire, è sempre e necessariamente anche un uscire da sé verso l’altro.

La produzione di meraviglia è, però, anche moltissimo altro: è la narrazione – non lineare e piena di sorprese come non lineare e piena di sorprese è la vita – di due destini, e di tutti gli incontri, le emozioni e di tutti i piccoli atti quotidiani che di fatto quei destini hanno contribuito a modellare, fino al terribile e meraviglioso finale. (Quasi il recto e il verso di un manoscritto).

Dopo il – notevolissimo – romanzo d’esordio Il mio impero è nell’aria, con la Produzione di meraviglia Ricuperati si conferma narratore potente in cui convivono in perfetto equilibrio una vena «realistica» ed una immaginifica se non, a tratti, surreale. Si veda ad esempio l’episodio – che non svelo – del compleanno della madre di Remì, o l’enigmatica figura del suo assistente, quasi un butler tardo ottocentesco catapultato nell’ambiente postmoderno del poker professionistico. Ricuperati maneggia personaggi e registri diversi con eguale naturalezza: penso alla vaga levità di certe descrizioni della vita quotidiana di Ione in contrasto alla precisione quasi notomizzante con cui sono indagate le dinamiche familiari dopo l’improvviso arresto del padre. O ancora, alla tensione sensuale che lega Remì e Ione fin dal principio. (E qui lo spostamento decisivo è quello sensoriale, poiché il lettore non vede, bensì sente – insieme ad uno sconvolto ed eccitato Remì – i rapporti di Ione).

La produzione di meraviglia è un libro complesso, decisamente innovativo. Ad esempio, nell’uso delle immagini, le carte di Remì, che non sono semplice ornamento ma myse en abîme, vera storia nella storia; innovativo anche nella creazione di un mind-game virtuale – una lunga chat tra i due protagonisti – che, in modo spiazzante eppure assolutamente convincente, riesce ad indagare le nostre risposte – fisiche ed emotive – alla comunicazione digitale. Eppure La produzione di meraviglia non si chiude autisticamente in uno sperimentalismo di maniera, ed è invece fedele ad alcuni capisaldi del genere-romanzo, su tutti la fiducia in personaggi realistici e «portatori di destino» – quel destino che noi lettori avidamente cerchiamo.

Quando ho finito di leggere mi sono tornate in mente le parole di David Foster Wallace sul bisogno – per i veri ribelli della letteratura odierna – di ritornare a parlare della vita e delle emozioni umane «con rispetto e convinzione»; perché cos’è, in fondo, la «meraviglia» che il romanzo evoca fin dal titolo se non – semplicemente – il nostro esistere qui e ora, la vita stessa? Ovvero: la possibilità sempre aperta di rispondere con intelligenza e emozione a tutto il terribile e meraviglioso che ci circonda e, facendolo, provare a intravvedere – o costruire – un destino.

 

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