Cauto elogio della narrativa italiana recente (Il critico come palombaro) Parte 1

L’arte – ha scritto Antonio Franchini in quel libro bellissimo e incategorizzabile che è Cronaca della fine «spiazzata, decontestualizzata, messa in mezzo a un cumulo di macerie non sempre vi sfolgora; più spesso vi sta come scaglia di maceria nel monte di macerie» (Franchini 2003, 159). Penso a questo mentre mi accingo, faticosamente e forse anche con un po’ di ritrosia, a tentare uno sguardo di insieme, una specie di consuntivo (ça va sans dire: irrimediabilmente incompleto) della narrativa italiana recente; una narrativa oggi sempre più maltrattata, quando non disprezzata, dai critici nostrani. Capisco fin troppo bene lo scoramento presente, e sono forse persino d’accordo con Berardinelli quando malinconicamente nota come il genere romanzo sia diventato, ormai, «più merceologico che letterario» (Berardinelli 2011); capisco fin troppo bene lo smarrimento di chi, di fronte alla immensa mole di di romanzi e romanzetti, best-seller e long-seller, «scritture» e raccontini spacciati da opere che sono il pane quotidiano del mercato dell’editoria, fa fatica ad orientarsi. Siamo sul monte di macerie, di macerie siamo circondati e sommersi. Il mestiere del critico militante non è forse mai stato così pieno di insidie, così spiazzante. Eppure: se non vogliamo che la critica si riduca alle tristi (e spesso capziosamente eterodirette – ma questo è un altro discorso) notarelle dei lettori di Amazon o similia, possiamo e dobbiamo infilarci lo scafandro, armarci di una buona pila, e immergerci nella massa nera. E ritornare in superficie con i nostri piccoli tesori luccicanti. Perché di questo sono convinto: se ci sottraiamo alla (pericolosissima) logica del «capolavoro», ovvero se guardiamo – come si deve – alla produzione letteraria con spirito laico e consideriamo i libri come prodotti dell’uomo nel tempo e non in un immaginario iperuranio, di tesori ce ne sono, e non pochi.

Inizio allora con una considerazione elementare ma, credo, di prima importanza: il panorama della narrativa italiana è oggi, e anche a differenza di un passato recente, estremamente vario. Ad esempio dal punto di vista delle differenti declinazioni del genere romanzo; romanzi prettamente narrativi, romanzi-saggio, romanzi-meditazione: per ognuna di queste – labilissime – sotto-categorie possiamo trovare almeno uno, o più, campioni. Se dimentichiamo almeno per un attimo la standardizzazione dei romanzi più compiutamente commerciali, mi sembra che anche dal punto di vista della lingua, l’ipotesi della ricchezza (e varietà) non venga smentita. Chi potrebbe dire, ad esempio, che la prosa vulcanica, baroccheggiante e materica di un Giorgio Vasta equivalga, che so, a quella felicemente grigia e improvvisamente squarciata da lampi lirici di un Antonio Pascale? Chi potrebbe parlare di standardizzazione confrontando la prosa sconquassata e godibilissima di Paolo Nori con l’elegante pienezza di quella di Alessandro Piperno?

Già, Piperno. Talvolta ho l’impressione che i suoi più aspri critici nascondano un inconfessabile odio per il genere romanzo in sé; perché si dica quel che si vuole, ma Piperno è romanziere di razza, e tutt’altro che commerciale. Più ancora che il – pur notevole – romanzo d’esordio, credo che la centralità del suo progetto narrativo sia comprensibile alla luce del dittico Nel fuoco amico dei ricordi; un dittico nel quale anche la lingua, depurata di alcuni eccessivi preziosismi che appesantivano la prima prova, si fa più robusta e, direi, «classica». Non è un caso che più di ogni altro Piperno abbia sollecitato paragoni con i grandi romanzieri primo-novecenteschi (si è scomodato addirittura Proust, di cui Piperno, peraltro, è stato finissimo interprete). Lo stesso Filippo La Porta, dopo aver – assai giustamente – bollato questi paragoni come «incauti», non ha resistito alla tentazione, e ha parlato delle Peggiori intenzioni come di un «Buddenbrook de noantri» (La Porta 2012, 149). Anche al di là della giustezza dei singoli paragoni (e quello di La Porta mi pare, per molti versi, quello più azzeccato) il punto è capire perché, quando si parla di Piperno, sembri impossibile sottrarsi a questo gioco di accostamenti e azzardi. (Neanche io, lo si vedrà, mi sottrarrò). Ancora una volta ha visto giusto La Porta puntando sulla capacità di Piperno di disegnare «personaggi robusti con pochissimi tratti», e sulla sua «pazienza [nel] costruire solide architetture narrative» (La Porta 2012, 149). Ovvero: Piperno crede fermamente nel, e forse ancor di più ama il, romanzo «tradizionale». Immagino che nella sua personale biblioteca affettiva i nomi di Robbe-Grillet e Butor (o dei nostri neoavanguardisti) occupino un posto assai marginale. Li conosce, senza dubbio ne ha valutati i ripetuti tentativi eversivi, e poi ha consapevolmente deciso di adottare una strategia che, se è di retroguardia, certo non è obsoleta. Per restituire al romanzo la sua funzione conoscitiva, sembra dirci Piperno, non è necessario negarlo, ma rilavorarlo e rinnovarlo, tenendo ben ferme le fondamenta del genere, quelle stesse fondamenta che le teorie tardo-novecentesche volevano far saltare in aria: appunto la robustezza (anche psicologica) dei personaggi e dell’architettura narrativa, e il «piacere» di una narrazione a forte carattere mimetico. Lo si sarà capito: quello di Piperno mi sembra un programma tutt’altro che naïve, e in effetti ad altissimo tasso di rischio. Cosa è, infatti, Il fuoco amico dei ricordi se non un tentativo – e dei più riusciti – di descrivere gli intrecci e gli urti tra la contemporanea «società della comunicazione» e la vita psicologica e intima del singolo? Potremmo quasi considerare Persecuzione e Inseparabili dei case studies sull’Italia contemporanea; ma sono, invece, qualcosa di diverso e qualcosa di più. Se alcuni fatti di cronaca hanno certamente funzionato come principi ispiratori (in filigrana alla vicenda di Filippo di Inseparabili, ad esempio, appare chiaramente il «caso Saviano»), Piperno non sceglie – come oggi va per la maggiore – la scrittura di non fiction più o meno romanzata, ma si affida – con un atto di fiducia che può apparire enorme – all’immaginazione, al romanzo «puro». Il risultato è una Comédie Humaine italiana e in miniatura.

Anche per chi, come il sottoscritto, sente tutta la stanchezza del genere-romanzo e punta su narrazioni a forte componente (auto)riflessiva e «ibrida», il dittico di Piperno fa l’effetto di una boccata d’aria fresca. Verrebbe da esclamare: «ma allora è ancora possibile!»; è ancora possibile, cioè, costruire un impianto narrativo nel quale piacevolezza e cognitività della trama vadano di pari passo. Mentre leggiamo della famiglia Pontecorvo non solo godiamo dei ripetuti coup de théâtre che una narrazione perfettamente bilanciata dosa con attenzione, ma riflettiamo sui meccanismi che, spesso in modo occulto, governano il nostro stare nel mondo qui e ora.

La piacevolezza di cui parlo non ha, però, a che fare con quella visione consolatoria del mondo di cui ha parlato David Foster Wallace come carattere distintivo dell’arte commerciale; non è, cioè, una visione rassicurante: Piperno non si arresta di fronte a debolezze, meschinità, storture dell’anima, ed anzi le racconta e indaga con sguardo fermo e pietoso (il balzo in avanti del Fuoco amico dei ricordi rispetto alla prima prova mi pare sia frutto esattamente di questa capacità di notomizzare le nostre ferite con rispetto e delicatezza). La piacevolezza di cui parlo deriva quindi dalla razionalità dell’architettura narrativa e dalla possibilità di riconoscimento empatico del lettore con i personaggi.

In effetti la tendenza, non solo italiana ma globale, sembra essere quella di un ritorno a personaggi credibili, quando non «realistici» in senso stretto. Basti pensare, ad esempio, ad autori come Jonathan Franzen, Michael Cunningham e Dave Eggers in America, a Jonathan Littell, Philippe Forest e Emanuele Carrère in Francia, a Ingo Schultze in Germania. E che cosa sono le numerosissime autofiction e biografie romanzate se non il segno di una «fame di destino»? Un destino che il lettore chiede di vedere dispiegato nelle vicende, per dirla con Debenedetti, di un rinnovato «personaggio-uomo».

Già che siamo in tema di autofiction e biografie romanzate, mi si permetta una brevissima sortita in territorio extra-nazionale, almeno per dire due parole sul libro più celebrato dell’anno, Limonov di E. Carrère. Carrère è certamente scrittore avvertito, solido ed elegante insieme; Limonov è una nonfiction che affascina, e per lo stile dell’autore, sempre chiaro – forse troppo chiaro, talvolta – e per l’effettivo interesse della vicenda. Eppure sono d’accordo con Cordelli quando afferma che la qualità perspicua di Carrère è il suo essere «diligente»: è bravissimo, come lo è il primo della classe o, a voler essere meno tranchant, come lo è uno storico coscienzioso e dal bello stile; studia molto e riporta con esattezza ed eleganza; evita di parteggiare per il suo personaggio o di condannarlo troppo facilmente, e ci invita sempre a riflettere ancora, a studiare un po’ di più. Se uno dei tratti fondamentali della letteratura d’intrattenimento è il suo rassicurare il lettore, allora Carrère è certamente autore d’intrattenimento e – con termine ormai un po’ desueto – midcult. All’opposto di quanto accade al personaggio che ci racconta, sia l’autore sia noi lettori siamo sempre in un luogo sicuro: la narrazione, perfettamente calibrata, procede senza sussulti o trappole, e tutto va come deve andare. Limonov è la storia moderata, «per bene», di una vita eccessiva e rivoluzionaria; è una storia che soddisfa il gusto dell’«esotico» del lettore pur trattando di luoghi e personaggi conosciuti; offre al lettore il giusto brivido dell’orrore (la guerra in Bosnia) e il motivo dell’indignazione politica (le incarcerazioni, la censura di Putin) all’interno di un discorso, alla fine, moderato e «benpensante». Il tutto condito da uno stile limpido – uno stile artiste volutamente sottotono – che guadagna in eleganza ma perde in sapidità.

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