Il canto silenzioso della letteratura. Note sull’ “Abusivo” di Antonio Franchini

Di Veronica Frigeni

 

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Quello di Franchini[i] è un testo strutturato all’intersezione di tre differenti livelli di scrittura e che richiede al lettore, vicendevolmente,

una triplice soglia di attenzione critica.

Anzitutto il piano diegetico della finzione (auto)biografica che racconta i primi, acerbi e sconclusionati tentativi di un aspirante giornalista poco interessato ai fatti e più alla loro forma: spia, quest’ultima, del focus meta-discorsivo dell’intera opera. Segue poi, in una prospettiva di allargamento al contempo temporale e geografico, il trasferimento a Milano: è il presente della scrittura, stretto dall’irrompere di quel microcosmo ormai affidato al passato, Napoli, però riflesso ed esacerbato, indi sempre quotidiano e attuale, nelle violenze e idiosincrasie dell’ambiente famigliare.

 

Il secondo livello è quello più propriamente documentale, cronachistico, che conduce ai limiti e necessariamente riarticola le condizioni di possibilità della finzione narrativa stessa. Lì, dove il confine tra referenzialità e metafinzionalità si ibrida, le pagine affastellano testimonianze e voci, prospettive plurime e discordanti che raccontano la morte del giornalista ‘abusivo’ Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra il 23 settembre 1985. Nomi, date, luoghi d’incontri: una costruzione collettiva in primo luogo dovuta all’esigenza investigativa e conoscitiva della cronaca e della giustizia, ma che diviene, inoltre, necessaria trasposizione di quella coralità cui era affidata, nell’antichità greca, l’esecuzione del lamento e dell’encomio funebre. Per Franchini, come vedremo, è del resto questa l’unica modalità autentica che resti al fare letterario. Siamo, a questo punto, nell’ambito di ciò che Tabucchi avrebbe chiamato al contempo ‘autobiografia altrui’ e ‘poetica a posteriori’.[ii] Da un lato la caratterizzazione mnemonica del narratore s’interseca, infatti, con l’immagine sorridente eppure umbratile di Siani, per cui il ricordo di una vita, la propria, diventa l’impossibilità imprescindibile e allo stesso tempo la richiesta urgente di memoria e di oblio proprio e altrui. Dall’altro lato, il lettore è qui condotto in un ‘a posteriori’ spaziale e temporale, quale può essere il cronotopo della memoria e della letteratura stessa. ‘Diritto a posteriori’ (p. 81) è, in questo senso, l’unico riconosciuto alla finzione.

 

Quale patto narrativo si costruisce qui con il lettore? Non certo quello ormai classico, formulato da Coleridge, e che si fonda sulla sospensione di incredulità. Eppure, nemmeno il suo semplice rovesciamento, in altre parole l’instillazione del dubbio che scandagli, decostruisca, svisceri criticamente tutte le versioni e i punti di vista proposti. Piuttosto, al contempo, l’uno e l’altro. Del resto, non di romanzo, ma di ‘ricostruzione spuria di una vicenda di ordinaria infamia’ (p. 144) si tratta. Spuria perché ibrida, giocata sul crinale tra la cronaca e l’affabulazione. Ma, etimologicamente, spuria anche perché testimonianza sopravvissuta in modo illegittimo, senza meriti, alla propria fonte. Quello che si richiede al lettore non è la collaborazione nel riempire i vuoti degli eventi, illuminandone dettagli ancora celati. Non tanto e non solo, quantomeno. La domanda, l’appello che il testo rivolge è invece a condividere il peso, la stanchezza nonché il valore etico di una sopravvivenza che si faccia testimonianza. La partecipazione non ad una certezza, bensì ad un’intenzione, un gesto.

 

Terzo livello in cui si articola il testo è, infine, quello meta-discorsivo, in cui l’autore avanza una riflessione comparata su diritti e limiti del giornalismo e della letteratura, sull’irriducibilità di cronaca e narrazione. Di fatto ciò che si propone è una concezione della verità come costrutto testuale, plurima. Esiste, anzitutto, quella processuale, e per Franchini, si noti, un processo ‘è il racconto di un racconto’. (p. 191) Esiste, oltre e affianco alla verità processuale, quella storica:

 

Con la prima si scrivono le sentenze e si mettono in luce i fatti verificati, con la seconda si capiscono gli sfondi, i contesti, e si può cercare di intuire quanto non si è potuto né si potrà mai dimostrare’. (p. 192)

 

Ciò ben sapendo che, anche nel caso della storia, l’unica via di esperienza e di conoscenza che ci è concessa, è quella testuale. Se i fatti resistono alcune interpretazioni, sono queste ultime ad alimentare il discorso storiografico stesso, con le dovute esigenze di verofunzionalità e di conseguente distanza dalla finzione, indicate, tra gli altri, da Ginzburg.[iii]

 

Esiste quella cronachistica, legata all’essere, la cronaca stessa, ‘investita di un forte diritto’ (p. 81), quello ad una pretesa oggettività, trasparenza del dictum.

Esiste infine la verità della letteratura. Che non è un fatto, un commento, una scoperta, una testimonianza aggiuntiva o una tardiva illuminazione. Le epifanie, con Franchini, non accadono più. Al massimo, ciò che la memoria concede è solo qualche ‘rosicchiata apparizione’. (p. 21) Egli si trova di fronte ad una letteratura che coltiva:

 

Questo sogno di assemblare il vero con il verosimile e il falso, per costruire l’illusione che il suo nuovo ordine, l’ordine di parole che ha generato possa esistere, resistere e durare, anche se non si tratta della Verità, ma di una verità altra. (p. 128)

 

Franchini non nasconde la propria disillusione, l’insofferenza e la vergogna di chi si ritrova non solo a posteriori ma postumo, sopravvissuto. Eppure ciò non costituisce scacco bensì palingenesi letteraria, se è vero che proprio ‘la scrittura convive meravigliosamente con l’assenza di verità’. (p. 144)

 

‘La verità resiste in quanto tale solo se non la si tormenta’ scrive Dürrenmatt nel racconto La morte della pizia,[iv] che Franchini pone in calce al libro. E’ legittimo suggerire, a mio avviso, un parallelismo tra la voce oracolare della pizia, quella enigmatica della Sfinge, presente essa stessa nelle pagine di Durrenmatt, e la voce che Franchini attribuisce alla letteratura. In tutti questi casi, infatti, ci si trova innanzi ad ‘un modo più originale del dire’,[v] vale a dire ad una parola che non cerca alcuna comprensione in termini semantici, ma che demanda solo il riconoscimento della propria esistenza, dell’essere stata proferita.

E’ in tale prospettiva che diviene possibile cogliere tutte le potenzialità implicite nell’attribuzione, compiuta da Franchini, di una voce afona alla letteratura. Afona, non muta. Da un lato, come ci ricorda ancora Agamben, la voce ha da sempre costituito l’orizzonte di esperienza di un’intenzione semiotica, di un’apertura e proiezione di significato.

 

Esperienza non più di un mero suono e non ancora di un significato, questo pensiero della voce sola […] apre al pensiero una dimensione logica aurorale che, indicando il puro aver-luogo del linguaggio senza alcun evento determinato di significato, mostra che vi è ancora una possibilità di pensiero al di là delle proposizioni significanti.[vi]

 

Dall’altro lato, però, come precisa Franchini, siamo qui di fronte ad una letteratura afona, una voce che non si concretizza, non si attualizza: ‘Meglio la letteratura, che serve a poco, ma almeno è afona, avrebbe la voce dell’interiorità, cioè quella che noi vogliamo darle’. (p. 195)

In questo senso, la letteratura è una pura potenzialità di significazione che mai trapassa nel piano dell’evento. Come detto, nessuna ipotesi, nessuna rivelazione, nessuna verità da comunicare. Quale quindi la verità letteraria? Né oggetto di una rivelazione né basata sull’adequatio rei et intellectus, ovvero su una presunta aderenza tra parola e mondo.

La verità letteraria è invece nel gesto stesso della narrazione, nel suo farsi epicedio e quindi gesto di trasmissione. La letteratura, insomma, come canto:

 

Per quanto riguarda la letteratura, invece, questa forse è solo una fissazione mia, ma alle volte mi sembra che essa sia diventata (se non lo è sempre stata) soprattutto treno, epicedio, canto funebre.

(p. 48)

 

Canto afono, canto silenzioso. Dove la possibilità etica, la possibilità di una verità letteraria non è più da rinvenirsi nelle parole o nel non detto, bensì nel gesto stesso dell’avere luogo del linguaggio.

È nella propria sopravvivenza, coincidente con l’esistenza stessa della letteratura, che Franchini trova la ragione, infine la verità etica, del proprio scrivere.


[i] Tutte le citazioni sono tratte da: Antonio Franchini, L’abusivo (Venezia: Marsilio, 2001)

[ii] Antonio Tabucchi, Autobiografie altrui. Poetiche a posteriori (Milano: Feltrinelli, 2003)

[iii] Carlo Ginzburg, Miti, emblemi, spie: Morfologia e storia (Torino: Einaudi, 1986)

[iv] Friedrich Dürrenmatt, La morte della Pizia (Milano: Adelphi, 1988)

[v] Giorgio Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale (Torino: Einaudi, 1977), p. 164

[vi] Giorgio Agamben, La potenza del pensiero. Saggi e conferenze (Vicenza: Neri Pozza Editore, 2005), p. 29

 

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