Primi appunti su romanzo e pietas

Ho letto con commozione il ritratto di un amico morto scritto da un altro amico. Non so se è perché io sono rimasto sensibile soprattutto, o solo, alle cose che mi toccano da vicino, come forse è normale sia per tutti. Se invece la maggiore commozione dipendesse dal fatto che anche coloro che scrivono riescono a emozionarsi soprattutto quando raccontano qualcosa che, a loro volta, li tocca da vicino, questo sarebbe già meno normale. La letteratura non dovrebbe funzionare così, la letteratura dovrebbe essere finzione. O anche finzione.

Eppure secondo me le pagine più belle – o sono le più facili? – scritte dai miei coetanei sono ricordi di morti.

Non deve sorprenderci che la nostra umanità sia restia a scuotersi se prima la nostra intimità non è toccata.

Per quanto riguarda la letteratura, invece, questa è forse solo una fissazione mia, ma alle volta mi sembra che essa sia diventata (se non lo è sempre stata) soprattutto treno, epicedio, canto funebre.

(Franchini 2001, 56).

È uno dei passi più citati dell’Abusivo di Antonio Franchini, «ricostruzione spuria di una vicenda di ordinaria infamia» (Ibid., 175), ovvero l’omicidio del giornalista del «Mattino» Giancarlo Siani per mano della camorra. Come è stato spesso notato, però, L’abusivo non è (solo) un testo di denuncia, né un racconto a matrice indiziaria quanto, piuttosto, l’interrogazione sul senso di quella morte (di ogni morte) e del rapporto che la scrittura intrattiene con essa. Franchini scrive di quella morte e a partire da quella morte, ma sente dolorosamente come l’atto dello scriverne sia, se non inutile, grottescamente sproporzionato rispetto ad essa. Il passo, dicevo, è fra i più commentati del libro, soprattutto perché affronta esplicitamente uno dei nodi fondamentali della narrativa contemporanea (italiana ma non solo), ovvero la tendenza a mischiare consapevolmente fiction e non fiction come espediente per raggiungere un di più di realismo – o ancor meglio: di realtà – in grado di scuotere l’indifferenza del lettore. (E io stesso, quando ho proposto la definizione di «romanzi ibridi» per un filone della narrativa italiana a partire dagli anni Novanta del secolo scorso sono partito proprio da qui, da questa felice ibridazione di cronaca e romanzo). Nel passo citato c’è, però, qualcosa di più, c’è un’ipotesi – se pure, attraverso un understatement tipico in Franchini, tra parentesi – sull’essenza stessa della letteratura: essa sarebbe, al suo cuore, un volgersi pietosamente a ciò che è stato per onorarlo attraverso il canto. È attraverso questo canto che la letteratura produce il suo effetto, se pure «miserevole»: «costringere chi è vivo a rifletterci e e a darsene pena»; e questo «riflettere» è insieme un interrogarsi «con quale diritto [il vivo] continua a fare le cose che l’altro non può fare più», ma anche un processo di riconoscimento della propria fragilità nella fragilità dell’altro: «il pensiero elementare, quello che slitta in zone remote della percezione, è immaginare di stare parcheggiando sotto casa quando sentiamo esploderci la testa. Quanto dura? Quanto dolore c’è? Quanta consapevolezza? Alle volte ci penso, quando parcheggio sotto casa: ora spengo il motore e mi scoppia la testa» (Franchini 2001, 56, 70).

Anche L’enfant éternel di Philippe Forest parte da una morte «indecente» – ammesso che ne esistano di «decenti»: se è vero, come scrive Gadda nella Cognizione del dolore, che «ogni oltraggio è morte» non possiamo fare a meno di pensare anche l’esatto opposto, ovvero che ogni morte è oltraggio; ogni morte, alla fine, è morte violenta -. La morte di Pauline, una bambina di quattro anni, è una morte rispetto alla quale nessuna consolazione sembra possibile, e di fronte alla quale persino la religione tace sbigottita: «ci raggiunge un prete. Ascolta le parole che diciamo. Annuisce. Sembra accusare il colpo di quell’immagine a cui nessuna religione prepara» (Forest 2007, p.340). Se la religione tace, il romanzo rimane invece fedele al suo compito, e racconta. Ogni sera per tre mesi Forest si è seduto alla scrivania e ha scritto, ha trasformato sua figlia in «un essere di carta» (Ibid., p.343). Come già Franchini, anche Forest non rinuncia a farsi la domanda – terribile – che noi lettori, forse per pudore, mai oseremmo rivolgergli: perché? Le «parole non danno nessun soccorso» (Ivi), e la letteratura, da sé e da sempre, «non salva niente. Non riabilita nessuno» (Forest 2006, web); eppure ogni sera Forest, rimasto solo, si china sulla scrivania e lascia la sua testimonianza sotto forma di segni tracciati sulla carta. «Non si dice più: la bambina. Ancor meno si pronuncia il suo nome. I morti – scrive Forest – perdono per prima cosa il diritto di essere nominati» (Ibid., p.338); il romanzo, invece, può ancora dire: «Pauline»; quando l’ultimo oltraggio è stato consumato, quando il suo corpo è stato truccato e «preparato» per essere seppellito, quando la bellezza imperfetta di Pauline è stata trasformata in una «ripugnante bellezza artificiale», il rammemorare pietoso del romanzo è tutto ciò che rimane del prima. Non dà la consolazione di un senso, ma è traccia.

Un romanzo è un’incisione nel legno del tempo […] Così come spesso s’è detto, tutti gli scrittori di tutte le epoche non sono che uno, il quale affronta con parole sue – sublimi o miserabili, grandiose o mediocri – la rivelazione unica e schiacciante del Tempo. Da sempre ci ripetono che siamo mortali, che la vita dura un giorno, che tutti saremo colpiti nell’affetto più caro, che l’ultimo atto, inevitabilmente, è cruento, quale che sia la commedia in cartellone… Ma chi ci crede? […]

E se veramente il romanzo è un’incisione nel legno del tempo, esso obbliga ciascuno a guardare dritta in faccia la vertigine di durata in cui passa. Una rozza visione profetica è sempre all’orizzonte del racconto vero […] Non pensavo che la verità fosse così semplice e che tutto in sostanza fosse simile al disegno lasciato sulla pietra dalle cinque dita di una bambina.

(Forest 2007, 113, 118-19).

Il romanzo, che parte da una morte, è rammemorazione pietosa di ciò che non è più e insieme memento per chi resta: «obbliga ciascuno a guardare dritta in faccia la vertigine di durata in cui passa»; e ogni romanzo, in questo senso, è autobiografico, poiché la sua «rozza visione profetica» è niente più che la prefigurazione della propria morte a partire dalla morte dell’altro.

Le affermazioni di Franchini e di Forest devono essere intese su due livelli. Innanzi tutto come reazione ad una concezione puramente estetica, iper-letteraria, del romanzo, inteso come gioco o «menzogna»; diremo, con un’approssimazione: al romanzo postmoderno (o ad alcune sue qualità fondamentali). In Quando vi ucciderete, maestro? (Franchini 1996), il narratore autobiografico racconta di come il vecchio professore «allievo di Croce» che lo aveva accompagnato «nel periodo più delicato della [sua] formazione» liquidasse gli autori della neo-avanguardia con un giudizio tranchant e un po’ retrò: «mostrano la loro cultura come le ballerine mostrano le gambe» (Ibid., p.40). Ovvero: riducono la letteratura, che dovrebbe – uso un’espressione di Forest – testimoniare «il disastro del vivere», a mero sfoggio citazionistico o gioco intertestuale. La rievocazione delle parole del professore serve a  preparare il terreno per l’affondo vero e proprio; è il narratore stesso, questa volta, a commentare un passo, riportato per intero nel testo, della Letteratura come menzogna di Manganelli:

Chiunque abbia pratica un poco svezzata della scrittura e dei suoi percorsi associativi si può facilmente accorgere che qui a Manganelli non interessa tanto, come dichiara, sostenere la tesi dell’immoralità della letteratura. In realtà non lo appassiona nessuna idea. Ciò che davvero lo attira […] è la palese soddisfazione di aver escogitato espressioni come «animali di capzioso pelame», «astratti deretani» […]. Niente di male, gli scrittori godono anche – alcuni soprattutto – di questi virtuosismi. Niente di male anche se avessimo detto «avventuroso pelame» o «capziose isoglosse» […] i sintagmi forse sarebbero stati meno brillanti, ma il significato non sarebbe cambiato di molto e nessuno si sarebbe accorto di niente. Un po’ di male c’è nell’attribuire a questi giochetti fondati sullo scambio e lo slittamento dei significati la grandezza sinistra dell’immoralità. L’immoralità è un concetto che pochi hanno potuto evocare con qualche ragione. La civetteria delle parole, che ha molti brillanti cultori, è un’altra cosa.

(Franchini 1996, 48)

Eppure, Franchini non è certo un narratore ingenuo, e sa quindi bene che la «civetteria» è in qualche modo inscritta nella sostanza stessa della letteratura: le parole sono sempre, come affermava il vecchio professore, un po’ «delle puttane», ovvero ci ammaliano, ma tradiscono sempre la realtà. Esattamente come le arti marziali, anche la letteratura richiede «grande spreco di studio e di proponimenti», culla «infiniti sogni d’impatto sulla realtà» ma è, alla fine «finzione» (Ibid., p.52). Ovvero: la letteratura, come le arti marziali, mima una prossimità alla morte che le è costitutivamente negata. È per questo che anche il tentativo, sulla falsariga del Leiris della Letteratura come tauromachia, di introdurre, scrivendo, i pericoli dall’esterno (il tentativo di trovare «l’equivalente (di) quello che per i toreri è il corno aguzzo del toro») è destinato al fallimento: come Leiris, anche Franchini riconosce che, più che la figura del torero che rischia la vita, lo scrittore evoca quella, decisamente meno «eroica», del macellaio:

Però alla fine di ogni promessa, al di sopra di ogni sbandierata sincerità, al di là della più feroce ostinazione nel mettere a repentaglio tutto se stesso nella carta e pur considerando, dall’altra parte, che sono proprio gli aspetti rituali e il ferreo codice stilistico a distinguere il torero dal macellaio e a costituire il senso dell’espressione artistica, Leiris deve riconoscere che il torero rischia la vita e il macellaio (e lo scrittore) no.

(Franchini 1996, 49-50)

La contraddizione non si risolve (non è risolvibile); in disparte, lontano dalla vita (e dalla morte), il romanziere può solo assolvere meglio che può il suo «miserabile» compito: volgere uno sguardo pietoso sull’uomo, sulla sua costitutiva fragilità, commemorando chi non è più e scrivendo in modo che le sue parole costringano «chi è vivo a rifletterci e darsene pena» (Franchini 2001, 56).

Allo stesso modo, anche Forest ha spesso chiarito come la sua narrativa nasca anche in opposizione alla poetica postmoderna. Il tentativo di L’enfant éternel, ma anche del successivo Le nouvel amour, è infatti quello di recuperare il legame tra letteratura ed emozione; tale legame, spesso negato nel gioco ironico e intertestuale, rappresenta invece per Forest l’unica risposta possibile del romanzo, la sua stessa ragion d’essere:

Mi sembra che l’attuale letteratura postmoderna si è persa recidendo ogni legame con l’emozione. Tutti i maggiori romanzi di oggi arretrano davanti all’emozione perché essi vengono meno di fronte al reale e vanno a cercare rifugio dalle parti dell’ironia, del gioco, del virtuale […] Ma io diffido di quel sentimentalismo che costituisce una maniera di trasformare la sofferenza in un oggetto di gioia inoffensiva e di speculazione interessata. Bisogna ricordarsi lo scandalo della sofferenza e la risposta incompleta che ci consegna l’amore. Se la letteratura serve a qualche cosa, serve, malgrado tutto, a questo.

(Forest dicembre 10, 2006)

Le posizioni di Franchini e Forest non sono isolate, ed anzi già da qualche anno si è cominciato a parlare di un «nuovo realismo» – con tutte le ambiguità che questa definizione comporta – e, più in generale, della «fine del postmoderno» per quanto riguarda il romanzo europeo. (In proposito si veda almeno, Donnarumma 2008, Mazzoni 2011). Tuttavia: le affermazioni di Franchini e di Forest sono molto più rilevanti se intese anche in senso più ampio, non solo in termini di contrapposizione di poetiche, ma come riflessioni sull’essenza stessa dello scrivere romanzesco da una prospettiva a-storica o trans-storica; come tentativo, cioè, di individuare quell’elemento semplice che giustifica il romanzo di fronte alla realtà.

Per entrambi, lo si è visto, la letteratura si configura come tentativo di sottrarre l’essere al tempo, al suo rotolare verso la fine; un tentativo vano, se la vittoria del romanzo sul tempo è sempre «segreta, inutile, risibile», e verrà il giorno in cui tutte le opere, esattamente come i libri di Don Ferrante, saranno ridotte a polvere: «come gli esseri viventi, le parole sono in partenza per il nulla che aspetta al varco» (Forest 2007, 213). Al netto di ogni poetica o teoria, il romanzo si ridurrebbe quindi a nulla più che ad una traccia di ciò che è stato e che costringe chi legge a guardare pietosamente alla transitorietà di tutto ciò che è: «non pensavo – scrive ancora Forest – che la verità fosse così semplice e che tutto in sostanza fosse simile al disegno lasciato sulla pietra dalle cinque dita di una bambina» (Ibid., 219).

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