Note su romanzo ibrido e etica

Questo testo è stato letto al convegno ADI tenutosi a Torino nel 2011.

«La fede islamica, la famiglia, la ‘ndrangheta, l’integrazione degli immigrati, il doping, le morti bianche, la corruzione […] non sono solamente i temi di questa antologia di inchieste, ma sono invece i contesti, le chiavi di senso, con cui provare a ripensare di entrare in contatto con chi vive in Italia».  Così, con parole dal sapore antico, quasi fosse un intellettuale «impegnato» del dopoguerra, Christian Raimo introduceva, nel 2007, il volume miscellaneo Il corpo e il sangue d’Italia da lui curato. Eppure, il lemma «impegno» sembra oggi irrimediabilmente compromesso, perché legato a doppio filo ad un pensiero di matrice essenzialmente ideologico-marxista, la cui incidenza – in Italia e nel mondo occidentale – è oggi, per usare una cauta litote, fortemente ridimensionata.

Il dato, banale quanto si vuole ma da cui è necessario partire, è che «la realtà italiana degli anni Quaranta-Sessanta non ha niente a che fare con quella attuale».Non stupisce, allora, che gli otto autori italiani interrogati da «Allegoria» nel 2008 concordino nel rifiutare ogni paragone o accostamento con la stagione neorealista e accolgano polemicamente anche la domanda sulla possibile incidenza della letteratura sulla realtà. Nicola Lagioia, ad esempio, attraverso una citazione quasi letterale di Clov in Fin de partie, afferma: «Ancora incidere sulla realtà? Questa sì che è bella!» (Così il testo di Beckett nella traduzione di Fruttero: Hamm: non può darsi che noi… che noi… si abbia un qualche significato?. Clov: Noi un significato! (breve risata). Ah, questa sì che è bella!).

Di fatto, però, rifiutare oggi la «stagione dell’impegno» del romanzo italiano – ovvero: un’idea ben precisa, e in parte fuorviante, di cosa significhi engagement – non implica recidere completamente i legami tra letteratura e politica, bensì negarne ogni connotazione ideologica. Interrogato in proposito, Bruno Arpaia, pur affermando che «i legami dello scrittore con le avanguardie politiche non sono più possibili semplicemente perché quelle avanguardie politiche non esistono più e non sono più immaginabili», propone tuttavia la definizione di «scrittore coinvolto». Uno scrittore, cioè, «dedito a immaginare spazi possibili per la polis, a svelare la menzogna che si può nascondere nelle parole, soprattutto in quelle del potere».

L’affermazione di Arpaia mi sembra chiarissima, e sintetizza molto bene, credo, quel cambiamento del panorama letterario italiano – il cui terminus a quo è l’inizio degli anni Novanta del secolo scorso – che ha visto rinascere la figura dello scrittore-intellettuale, uno scrittore – lo dico con le parole di un celebre saggio calviniano – non solo produttore di fiction, ma anche «ragionatore di storia e di politica».

D’altro canto, le parole di Arpaia ci portano in un territorio pericoloso: opporsi alla finzione significa stabilire la verità. E la verità è un concetto tutt’altro che pacifico. Di quale verità possibile parliamo dunque qui? Per una prima, parziale, risposta mi rivolgerei ad uno scrittore da Arpaia molto amato, ovvero lo spagnolo Javier Cercas, ed al suo ultimo romanzo Anatomia di un istante. Il tema del romanzo è il golpe del 23 febbraio 1981, ed in particolare il «gran rifiuto» opposto da Suarez di lasciare il suo scranno presidenziale a fronte delle minacce del colonnello Tejero e dei suoi sgherri irrotti in parlamento. È, questo, un evento ben noto, che «qualunque spagnolo sano di mente» conosce alla perfezione. Perché, dunque raccontarlo? E soprattutto come raccontarlo? Le risposte, cristalline, arrivano leggendo il prologo che Cercas ha voluto aggiungere al suo romanzo: è necessario raccontare ancora una volta l’evento per sottrarlo alla semplificazione massmediatica che lo ha ridotto ad «una fanfaronata spagnola appena uscita dal cervello avvelenato di cliché di un mediocre imitatore di Luis Garcia Berlanga». È necessario raccontare ancora una volta l’evento per restituire una coscienza della complessità.

La risposta al perché raccontare indica già la strada sul come raccontare: se, infatti, la logica oggi dominante dell’infotainment prevede – o piuttosto: impone – di trattare ogni argomento secondo un processo di banalizzazione e semplificazione che «fa cadere l’aspetto concettuale a favore dell’emozionalità»; se, come ha scritto ancora Javier Cercas, ogni evento storico è trasformato in un «romanzo collettivo», allo scrittore avvertito non resta che aumentare al massimo il grado informativo della sua narrazione, rinunciando ad alcuni tratti tipici della narrazione romanzesca, in primis il suo carattere puramente finzionale. Il fiorire, anche in Italia, di narrazioni dedicate a specifici problemi sociali, nonché il diffondersi di quel genere tipicamente anglosassone che sfuma i confini tra fiction e non fiction è da leggersi in primo luogo come reazione alla conoscenza degradata della società della comunicazione, ovvero, una società nella quale – lo ha ben visto Perniola – «è possibile introdurre nelle attività tradizionali della scienza, della politica e dell’arte una deviazione aberrante che consente di rivolgersi direttamente al pubblico saltando e ridicolizzando le mediazioni autorevoli del metodo scientifico, del giornalismo e della critica».

Sono quindi d’accordo con Cercas quando, proprio in apertura di Anatomia di un istante, afferma che di fronte alle finzioni costruite da mass-media, l’unico compito possibile per il romanziere non è quello di aggiungere finzione alla finzione, bensì di «conoscere scrupolosamente quale sia la realtà e umilmente raccontarla».

Si tratta di un passo indietro? Andrea Cortellessa, in un polemico articolo sulla tendenza della letteratura italiana del nuovo millennio a ripercorrere eventi di cronaca, eliotianamente dichiarava che «il genere umano non può sopportare troppa realtà». Credo, invece, che il problema sia esattamente opposto, e la domanda da porsi è piuttosto: quanta irrealtà, quanto esotismo, quanto gusto del pressapoco possiamo ancora tollerare? È forse vero – come ha dichiarato Walter Siti sulla scia di Vargas Llosa – che «nelle società perfettamente democratiche la storia e la fiction dovrebbero essere separate» ma, appunto, nelle società perfettamente democratiche. Se oggi è chiaro che lo scrittore non può (e non vuole) «educare il popolo» o farsi «ingegnere delle anime» , gli rimane il compito non meno importante di «fornire gli strumenti del cambiamento» attraverso la sua narrazione.

Un fallimento, dunque, necessario e, come afferma Cercas, a cui il romanziere può «conferire dignità». Non si tratta, infatti, almeno nei casi migliori, di rinunciare alla carica simbolica del romanzo; non si tratta di rinnegare la forma-romanzo per annullarla nel giornalismo o nella cronaca, ma di riscoprirne l’attualità e la forza critica. Come scrive lo stesso Cercas nel Prologo di Anatomia di un istante: «Questo libro ha l’ardire di non rinunciare a niente. O a quasi niente: non rinuncia ad avvicinarsi al massimo ai nudi fatti del 23 febbraio», ovvero «non rinuncia del tutto ad essere letto come un libro di storia»; ma allo stesso tempo «neppure rinuncia a rispondere a se stesso oltre che alla realtà, e quindi non rinuncia del tutto ad essere letto come un romanzo».

Se, come ha scritto Vargas Llosa, «gli effetti socio-politici della letteratura  si manifestano in maniera indiretta e molteplice, attraverso i comportamenti e le azioni dei cittadini la cui personalità i romanzi hanno contribuito a modellare», la questione deve essere analizzata anche da un punto di vista differente, indagando la possibilità, per la narrazione romanzesca, di essere momento della formazione etica individuale. Ovvero: il discorso sul possibile impegno politico può figurare solo come parte della più vasta domanda sulla vita giusta, e la politica deve essere considerata come parte dell’etica.

Solo in questo modo, infatti, si potranno salvaguardare nello stesso momento e la differenza specifica del fare letterario rispetto alla testimonianza o all’articolo di denuncia, e la ricchezza stessa dell’uomo, per il quale l’esperienza politica è inevitabilmente intrecciata con tutti gli altri aspetti – emotivi, etici, biografici – dell’esistenza. Semplificando al massimo grado: la questione che un testo minimamente avvertito pone non è mai «per che partito devo votare?», e neanche «come posso migliorare la società?», ma «che cos’è l’esistenza umana?».

In questo senso, allora, ogni testo è il tentativo – mai completamente riuscito – di «dare un senso alla vanità dell’esperienza» ed è politico solo nella misura in cui l’uomo agisce nel mondo con altri uomini, e noi chiamiamo «politica» l’organizzazione di questa interazione tra esseri umani. Analizzare i rapporti tra politica e romanzo all’interno e come integrazione del discorso etico ha, innanzi tutto, l’innegabile vantaggio di evitare le secche di ogni concezione ideologicamente orientata. La domanda da porsi non sarà se il romanzo possa (o ancor peggio: debba) promuovere valori politici specifici, e neanche  se il romanzo possa essere espressione di valori etici universali (e difficilmente definibili), bensì di capire se esso possa essere uno degli agenti scatenanti quel «tipo di riflessioni che le persone devono sviluppare quando si interrogano su ciò che è bene o doveroso fare».

Sarà quindi necessario modificare la prospettiva: ogni discorso su letteratura ed etica non può limitarsi a ritrovare all’interno di testi specifici indicazioni sul contenuto della vita giusta, ma dovrà indagare se, e in che modo, la forma-romanzo sia una delle condizioni di possibilità della riflessione (sulla) morale. Bisognerà quindi astenersi dall’enunciare qualsivoglia contenuto morale, e considerare invece la moralità come una attitudine o «sensibilità che permette di orientarsi nel giudicare e valutare ciò che gli altri stanno facendo, e di sottoporre a continuo esame le nostre stesse scelte».

È su questo piano – e su questo soltanto – che è possibile discutere di etica e letteratura (nel nostro caso di etica e romanzo) e di, eventualmente, riconoscerne la prossimità. Ezio Raimondi ha parlato dell’etica del romanzo come di un’etica «interrogativa e esplorativa», mentre Milan Kundera – partendo dallo humour come carattere costitutivo del romanzo moderno (e della modernità stessa) – ha riconosciuto nell’universo romanzesco il «territorio in cui è sospeso ogni giudizio morale»; tale sospensione del giudizio, che ricorda molto da vicino l’epoché husserliana, costituisce però – e il paradosso è solo apparente – esattamente la morale del romanzo, poiché «si contrappone alla inveterata pratica umana che consiste […] nel giudicare prima di e senza aver capito».

Ciò che le affermazioni di Raimondi e Kundera fanno intravvedere non è semplicemente una morale negativa grazie alla quale il «laboratorio antropologico» del romanzo sottopone a dubbio ogni enunciato circa la natura e il comportamento dell’essere umano per eventualmente smascherarne l’infondatezza, ma un particolare sguardo che, attraverso la narrazione, riesce a portare alla luce tutti quegli elementi, interni ed esterni, che condizionano l’agire dell’uomo.

A differenza di altre forme di indagine della realtà quali il saggio o l’articolo giornalistico, la narrazione romanzesca dispiega le cause dell’agire non attraverso l’analisi astratta delle motivazioni ad esso sottese, bensì attraverso il concreto operare del personaggio sulla scena. La particolare e dinamica relazione che si instaura tra personaggio e lettore rappresenta, a mio parere, il di più di efficacia morale del genere. Come hanno confermato recenti studi di psicologia sperimentale, infatti, nella letteratura – e a differenza di altre forme di indagine della realtà «non artistiche» – il lettore è portato non solo a valutare astrattamente le motivazioni dell’azione, ma a farle proprie, a considerarle come parte della propria esperienza: la letteratura «non esige dai suoi lettori comprensione, bensì identificazione» ed è grazie a questo fenomeno di identificazione che «la questione morale non resta al solo livello cognitivo, ma entra a far parte della stessa personalità del lettore».

Il lettore è chiamato ad identificarsi con il personaggio (ad accogliere emotivamente in sé la sua esperienza) pur rimanendo anche sé stesso; ovvero: conservando allo stesso tempo una distanza critica che gli permette di valutare razionalmente i contenuti di tale esperienza. Il lettore di romanzi, quindi, comprende empaticamente il personaggio senza tuttavia perdersi in esso, conservando la capacità di giudicarne le azioni anche alla luce delle proprie esperienze e delle proprie convinzioni morali. Tale processo insieme avvicinante e distanziante garantisce che l’identificazione tra lettore e personaggio non funzioni solo come passiva assunzione di un modello, ma come effettivo dialogo tra coscienze, come momento scatenante la riflessione. È per questo che, come ha scritto Raimondi, capire il testo significa sempre anche «distinguere l’individualità dell’altro entro una struttura dialogica». Più ancora che di «identificazione», come vuole Yehoshua, si dovrà parlare, credo, di riconoscimento: riconoscimento non solo delle ragioni dell’altro – o, ancor meglio, degli altri, ovvero dei diversi personaggi con le loro differenti visioni del mondo – ma anche dei processi di costruzione del nostro universo morale.

Cosa succederà, però, nel momento in cui il riconoscimento avviene con un personaggio il cui comportamento non è moralmente accettabile? È possibile o, secondo una domanda ancora più rilevante, è consigliabile che ciò avvenga?

Come è evidente, il processo di riconoscimento/identificazione non è mai completo né continuo, e si configura piuttosto come un costante oscillare tra i due poli di identità e differenza che apre lo spazio per la riflessione. Paradossalmente, quindi, più la scelta morale del personaggio sarà difforme da quella del lettore, o inaccettabile all’interno del suo universo morale, più essa potrà mettere realmente in discussione le convinzioni profonde del soggetto. L’identificazione con un personaggio ripugnante porta, infatti, ad una momentanea incongruenza del soggetto con se stesso, che apre all’aporia e all’incertezza. Come ha insegnato la lettura deleuziana di Proust, il mito di un soggetto che cerca la verità per un naturale amore della conoscenza è, appunto, un mito: «cerchiamo la verità quando siamo indotti a farlo in funzione di una situazione concreta, quando subiamo una specie di violenza che ci spinge a questa ricerca».

Il processo conoscitivo è quindi sempre provocato da qualche forma di disagio o sofferenza, sia perché essa rompe lo stato ovattato e gnoseologicamente improduttivo dell’abitudine, sia perché agisce come forza motrice sulla sensibilità e sull’intelletto; il soggetto, così stimolato, inizia un percorso di ricerca delle cause del dolore – ma anche del reale – che altrimenti non avrebbe intrapreso. È, dunque, proprio la dolorosa appercezione di questa incongruenza ciò che porterà il lettore a vedere il mondo come effettivo spazio per la scelta morale, e non come un sistema di situazioni già codificate dall’abitudine. La narrazione agirà come antidoto al rischio di pensare secondo categorie precostituite o imposte dalla «morale corrente».

È su questo campo della complessità che, a mio parere, le letture anti-etiche, ben sintetizzate da Posner nel suo Against Ethical Criticism, falliscono. Quando Posner nota che «la maggior parte dei migliori romanzi inglesi, francesi, russi, tedeschi e americani […] screditano il moderno progetto di libertà e uguaglianza»; quando Posner afferma, insomma, che moltissimi dei romanzi del presente e del passato non perorano la causa dei valori morali oggi dominanti nelle democrazie occidentali, sembra dimenticare come un atteggiamento morale non possa nascere dall’assunzione acritica di massime già date, bensì da una scelta consapevole operata all’interno di una situazione problematica. Ogni testo, anche il più precettistico, ad esempio una favola di Esopo, rimarrà inerte se non sarà in grado di sviluppare nel lettore un pensiero morale, più che fornirgli un giudizio morale. Mi sembra evidente, infatti, che un autentico comportamento morale possa svilupparsi solo attraverso la libera interiorizzazione di un valore trovato dal soggetto, e non grazie ad un mero esercizio di memoria. Filosofe come Martha Nussbaum e, prima di lei, Iris Murdoch, hanno affermato che la lettura di romanzi aiuta a formare cittadini migliori. Sono, in linea di massima, d’accordo; qui vorrei limitarmi, però, ad affermare che il riconoscimento empatico con l’altro, e con una realtà possibile, ci rende senza dubbio soggetti moralmente più consapevoli.

Permanent link to this article: https://blogs.kent.ac.uk/letteraturaevita/2013/03/05/note-su-romanzo-ibrido-e-etica/